Osservando le statistiche annuali sull’occupazione del nostro Paese è facile notare immediatamente che, a fronte di un incremento percentuale dei cittadini lavorativamente attivi, l’Italia si trovi ancora parecchio indietro rispetto agli altri Membri dell’OCSE; in particolare, per quanto riguarda le donne ci si trova a livelli similari a quelli di Stati quali Messico, Grecia e Turchia.
Anche in ambito europeo, con un tasso di attività femminile del 56,2%, l’Italia si classifica all’ultimo posto, e fa meglio della Grecia solo nella fascia di età compresa tra i 20 e 64 anni ove tasso di occupazione è del 53,1%.
Per le giovani donne la situazione è drammatica: nell’ultimo anno il tasso di disoccupazione nella fascia di età 15-24 anni è arrivato al 34,8% (abissale la distanza con l’Europa, dove il tasso medio di disoccupazione giovanile per le donne è del 14,5%).
Nonostante ciò, e una complessiva e marcata persistenza del Gender-Gap in ambito lavorativo, in Italia il Terzo settore è l’unico a distinguersi positivamente per la partecipazione femminile: più di un milione e 800 mila volontari sono donne, 636.171 sono le lavoratrici, a fronte di 313.830 uomini.
Da un’analisi dell’Unione Europea delle Cooperative (UeCoop) i primi tre settori della cooperazione dove è più forte la presenza femminile sono l’assistenza sociale, i servizi per edifici e paesaggio e l’istruzione: alla fine del 2018, in Italia su 80 mila imprese cooperative presenti, ben 19 mila risultavano gestite da donne.
A livello territoriale, spicca la Sicilia con 3.231 imprese gestite da donne su 12.122 (27%), seguita dal Lazio con 2.324 su 9.103 (26%), dalla Campania con 2.064 su 8852 (23%), e dalla Lombardia con 2.023 su 10.969 (18%).
Inoltre, secondo i dati inseriti dalle ONG italiane nel portale Open Cooperazione, il 30,9% degli incarichi di dirigenza e presidenza nelle ONG italiane sono ricoperti da donne. Più in generale, delle 22.352 risorse umane impiegate dalle ONG nella cooperazione internazionale, il 47% sono donne ed il 53% uomini. Un sostanziale pareggio che si squilibra leggermente quando si considerano solo le risorse umane operanti all’estero, dove il numero degli uomini aumenta sensibilmente.
Job4good, piattaforma dove si incontrano la domanda e l’offerta di lavoro nel settore no-profit, fornisce l’identikit della maggioranza dei candidati in questo settore: donna, solitamente tra i 25 e i 34 anni, laureata e sempre più specializzata. Si tratta di professioniste che studiano duramente per entrare a far parte di in un orizzonte lavorativo sempre più competitivo, dimostrando come il terzo settore sia una scelta ben precisa da parte loro.
Il no-profit riesce ad attirare un’ampia componente femminile grazie anche alle azioni di welfare e di conciliazione vita-lavoro di cui si fa portatore, mettendo in campo tutta una serie di servizi finalizzati ai genitori lavoratori, con particolare attenzione alle giovani madri.
L’interruzione lavorativa o la mancata partecipazione al mercato del lavoro per motivi parentali investe infatti quasi esclusivamente le donne: secondo i dati dell’Istat, l’11,1% delle donne italiane con almeno un figlio non ha mai lavorato per potersi prendere cura dei figli, una dato molto lontano dalla media europea ove ci si registra soltanto nel 3,7% dei casi. Per questa stessa ragione il 32,4% delle donne in età lavorativa (più di tre milioni di cittadine) sono costrette ad un impiego part-time. Un dato che acquisisce senso e portata se accostato a quello della flessibilità negli orari di lavoro: secondo una recente indagine del Censis, solo il 49% delle nostre imprese adotta orari di lavoro flessibili, una percentuale molto inferiore a quelle degli altri paesi europei, che arrivano a toccare il 70%. Un’impostazione che certamente non facilita l’avvicinamento delle categorie più deboli alla vita lavorativa o ad un loro impiego full-time.
Una via promettente per il superamento o, almeno, l’ammortamento di questa problematica equivale ad una crescente partnership tra profit e no-profit con cui si potranno meglio conciliare le esigenze del lavoratore e quelle dell’Azienda; ad esempio attraverso una serie di servizi erogati dalle organizzazioni che contribuiscano a risolvere problematiche quotidiane dell’impegato-genitore: asilo aziendale, servizi alla neogenitorialità, babysitting sono soltanto alcuni esempi.
Il no-profit può essere dunque una grande occasione di sviluppo, di garanzia delle pari opportunità, di valorizzazione del lavoro femminile e di incentivazione alla maternità in un Paese che invecchia sempre di più.
Fonti:
Rapporto OCSE
Report ISTAT
Comunicato stampa CENSIS
Dati opencooperazione.it
Comunicato stampa forumterzosettore.it
Analisi uecoop.org
Articolo pingocoop.it