Silvia Romano, la cooperante italiana rapita in Kenya nel novembre 2018, è finalmente tornata a casa dopo una prigionia durata ben 18 mesi. Il mondo della cooperazione e del volontariato, tutte le istituzioni e gli esponenti politici di ogni colore hanno rilasciato dichiarazioni di soddisfazione e sollievo. Il presidente Sergio Mattarella ha espresso la sua gioia a nome di tutti gli Italiani. Ma il mondo dei social ci rivela che la liberazione di Silvia non ha rappresentato una notizia da festeggiare per tutti, ma anzi ci svela un lato ormai non tanto celato di una certa parte di Italia, un lato vomitevole fatto di misoginia e xenophobia.
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Le immagini del suo arrivo all’aeroporto di Ciampino hanno rotto la narrazione della fanciulla fragile salvata dalle violenze e dalle sevizie del brutale nemico islamico, le sue dichiarazioni sul fatto di essere stata trattata con rispetto dai suoi carcerieri e la perversa attenzione posta sulla sua conversione hanno scatenato i peggiori discorsi d’odio sul web. Dalla retorica del “se l’è cercata” a quella del volontariato che può essere svolto anche in Italia in piena sicurezza, fino a quella dei soldi del riscatto sottratti a chi davvero ne ha bisogno nel nostro paese; passando per le fake news relative all’affiliazione con i terroristi e al ritorno in Italia per dare alla luce un bambino e fare ottenere la cittadinanza al padre islamico; fino ad arrivare all’incitamento allo stupro e a ributtanti speculazioni a sfondo sessuale.
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Non è la prima volta. A un tale scempio si è già assistito in occasione del rapimento di Simona Pari e Simona Torretta, le due cooperanti rapite in Iraq nel 2004, e a quello di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rapite in Siria nel 2014. Anche a queste donne è toccata la stessa sorte, lo stesso linciaggio mediatico e gli stessi commenti d’odio, additate come incoscienti e accusate per non essersi mostrate pentite ed affrante. Mentre deve far riflettere il trattamento meno offensivo, morboso e paternalistico riservato a vicende del tutto analoghe, ma stavolta con protagonisti uomini: basti citare Sergio Zanotti, Alessandro Sandrini, Luca Tacchetto, faustamente liberati tra il 2019 e il 2020, ma i cui casi hanno avuto poca risonanza mediatica.
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Esiste un problema di misoginia. Le donne che decidono di intraprendere percorsi poco convenzionali, che scelgono di essere protagoniste, che mostrano coraggio, che si impegnano nell’aiutare il prossimo anche in contesti lontani e talvolta difficili, rompono certi schemi e stereotipi e per questo danno fastidio. Non solo i casi sopracitati, lo dimostra anche il caso di Carola Rackete, finita nel mirino dei più spregevoli commenti a sfondo sessuale e razzista per il suo impegno in favore dei migranti e le sue missioni di salvataggio in qualità di capitana della nave Sea Watch.
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La ricerca pubblicata da Amnesty International lo scorso aprile “Sessismo da Tastiera” non smentisce tali evidenze. Lo studio ha preso in analisi i contenuti relativi a 20 personaggi noti italiani, 10 donne e 10 uomini, e ha rilevato che quasi un contenuto su quattro che ha come argomento “donne e diritti di genere” offende, discrimina o incita all’odio contro le donne. Inoltre, degli attacchi personali diretti alle donne, 1 su 3 risulta essere di carattere sessista (33%) e i contenuti che generano più commenti sessisti, oltre a quelli su “donne e diritti di genere”, hanno per argomento principale il personaggio noto stesso (20,2%), poi l’immigrazione (19,6%) e, infine, le minoranze religiose (15,5%).
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I discorsi d’odio e il sessismo riguardano ogni donna e ogni ragazza. Perpetuano modelli che alimentano la disparità di genere e espongono le donne a continui giudizi sul loro aspetto, i loro comportamenti e le loro scelte. Spesso commenti offensivi arrivano proprio dalle donne. C’è un problema culturale che il web porta alla luce con una portata imponente e il rischio è quello di normalizzare tali tipi di condotta.