31 Agosto 2020, una data storica per uno dei paesi africani che ha visto negli ultimi anni continui scontri che hanno minato la stabilità interna. Parliamo del Sudan e del recente accordo di pace siglato dal governo guidato dal Primo Ministro ed ex funzionario dell’ONU Abdalla Hamdok, incaricato della guida del paese dopo la destituzione dell’ex presidente Omar al-Bashir avvenuta l’11 aprile 2019, e il Fronte Rivoluzionario Sudanese, creata nel Novembre 2011 per riunire le due principali fazioni dell’Esercito di Liberazione Sudanese operante nella regione del Darfur, e il movimento Giustizia e Uguaglianza, operante nelle regioni del Kordofan meridionale del Nilo Blu.
Una pace frutto del progetto di dichiarazione costituzionale dell’agosto 2019, firmato da rappresentanti militari e civili durante la Rivoluzione sudanese, che richiedeva un accordo di pace per mettere termine al conflitto entro i primi sei mesi del periodo di transizione al governo civile democratico di durata prevista pari a 39 mesi. Secondo i termini dell’accordo, le fazioni che hanno firmato avranno diritto a tre seggi nel consiglio di sovranità, un totale di cinque ministri nel gabinetto di transizione e un quarto dei seggi nella legislatura di transizione. A livello regionale, i firmatari avranno diritto tra il 30 e il 40% dei seggi nelle legislature di transizione dei loro Stati o regioni di origine.
Per capire l’importanza di questo accordo è bene analizzare la genesi e lo sviluppo di tale conflitto, nonché i motivi che hanno portato allo scoppio di una guerra durata 17 anni. Il conflitto più noto alla comunità internazionale è quello del Darfur iniziato nel 2003 per ragioni etnico-religiose, ma anche economiche, relative all’accesso alla terra e alla suddivisione dei proventi del petrolio di cui è ricco il territorio. Il conflitto, che ha provocato oltre 300 mila morti e oltre 2,5 milioni di sfollati, metteva fronte i Janjaweed, milizie arabe-islamiste filogovernative appartenenti all’etnia Baggara, la principale nel paese, e la popolazione non Baggara della regione, rappresentata dai gruppi ribelli dell’Esercito di Liberazione sudanese e dal movimento Giustizia e Uguaglianza. Il sostegno del governo centrale alle stragi compiute dalle milizie islamiste nei villaggi non Baggara ha portato in più occasioni l’allora presidente al-Bashir ad essere accusato di crimini di guerra all’accusa di crimini di guerra nei confronti del presidente Omar al-Bashir. Altri scontri sono iniziati nel 2011, interessando altre regioni del paese, ovvero il Kordofan meridionale e il Nilo Azzurro, che hanno visto schierati l’uno contro l’altro il governo sudanese e il Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese.
Nonostante l’accordo possa essere considerato la base per la ricostruzione e il futuro del paese, rimangono alcune zone d’ombra sulla vicenda, a causa della mancata firma di alcuni gruppi ribelli all’accordo di pace dello scorso agosto. I motivi della mancata firma risiedono nella poca importanza che si è riconosciuta alle minoranze etniche e religiose presenti nel paese, richiedendo con insistenza l’inserimento del principio di laicità come elemento fondante lo Stato sudanese. Il futuro sembra comunque positivo vista la disponibilità da parte del primo ministro Hamdok ad affermare il principio di separazione tra potere politico e religioso nella nuova Costituzione del Paese.
Il futuro adesso è nelle mani del governo di Khartoum che si trova a dover mettere in pratica quanto affermato negli accordi, ben consapevoli che in caso di inadempienze gli scontri armati nel paese potrebbero ricominciare.