Nella notte tra il 10 e l’11 ottobre, nonostante fosse stato proclamato il cessate il fuoco umanitario tramite mediazione del Cremlino, la città azera di Ganja è stata bombardata dall’artiglieria armena.
Gli episodi riportati nelle ultime settimane tra Armenia e Azerbaijan rappresentano l’inasprirsi di un conflitto di quasi tre decadi per la contesa del territorio del Nagorno-Karabakh; una guerra che ha causato 25 mila vittime e quasi 1 milione di sfollati.
La regione, infatti, già nel 1988 aveva dichiarato l’indipendenza determinando un’escalation di tensione tra armeni e azeri. Nel 1991, dopo la caduta dell’URSS, venne formata la Repubblica del Nagorno Karabakh (NKR) che dal 1992 è terra di contesa internazionale fra le due potenze ex-sovietiche. Nel 1993 le truppe armene occuparono il territorio allargandosi su altri sette distretti circostanti; solo l’anno successivo il gruppo di Minsk dell’OSCE, presieduto da Francia, Russia e Stati Uniti, riuscì a mediare per una tregua.
Da allora si è cristallizzato uno status quo con un Nagorno Karabakh formalmente dell’Azerbaijan ma de facto governato da una repubblica separatista sostenuta dall’Armenia. Oggi a livello internazionale il Nagorno-Karabakh, seppur registri una popolazione prevalentemente armena e cristiana, è riconosciuto territorio dell’Azerbaijan, un paese ricco in petrolio e a maggioranza musulmana.
In un conflitto di larga data come questo né Armenia né Azerbaijan detengono il monopolio della verità all’interno della controversia. È interessante però capire perché gli scontri si siano riacutizzati proprio ora, a parte gli ultimi combattimenti del 2016.
La ripresa del conflitto poteva già prevedersi a seguito degli attacchi avvenuti lo scorso luglio, accompagnati da ondate di nazionalismo e tensioni tra i rappresentanti dei due paesi. Inoltre, a Baku, da anni si afferma che la risposta militare rappresenta un’opzione valida per il ripristino dei diritti nel Nagorno Karabakh di fronte all’insoddisfazione per le risoluzioni pacifiche concordate (e congelate) negli anni.
A questo si sommano scenari geopolitici: The Guardian, a settembre, già aveva informato sull’invio di foreign-fighters siriani nel Nagorno-Karabakh da parte della Turchia tanto che il Primo Ministro armeno, Nikola Pashinyan, aveva interpretato il gesto come la prosecuzione del genocidio armeno dell’Impero Ottomano. Per la Turchia, inoltre, l’Azerbaijan è un’arteria chiave di gas e petrolio come del resto anche per alcuni paesi europei (per l’Italia è il primo fornitore e partner commerciale a livello mondiale).
Un altro attore è la Russia: il paese ha stretto infatti un rapporto privilegiato con l’Armenia che partecipa all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) e accoglie una base militare russa nel territorio.
Russia e Turchia sono inoltre impegnati sia in Siria che in Libia: in entrambi i paesi i loro eserciti presentano interessi divergenti e nel sud del Caucaso sembra quindi riprodursi l’ambiguità del rapporto russo-turco e il suo sottile equilibrio di poteri.
La Francia, paese in cui si trova parte della diaspora armena, ha sollecitato la ripresa del dialogo nonostante l’Europa non abbia avuto un peso rilevante nella vicenda come anche gli Stati Uniti, oggi con un ruolo marginale nella regione.
Ad ogni modo attori esterni, come Turchia e Russia, potranno influenzare parzialmente la politica estera di Armenia e Azerbaijan; il conflitto resta in nuce una contesa di matrice etno-territoriale che dal 27 settembre ha ricominciato a mietere vittime e che evidentemente fatica a risolversi.
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