La percezione del mondo che ci circonda è senza dubbio plasmata dalla società in cui viviamo, dal contesto storico e dalle scelte politiche. Ad avere un ruolo cruciale in questo modellamento, sono anche, e soprattutto, le modalità nelle quali i fenomeni vengono narrati, rappresentati ed enfatizzati. I mezzi di informazione sono uno strumento potentissimo di costruzione della percezione sociale ed essi possono innescare forti immaginari collettivi. Le parole, le immagini, le scelte informative, dunque, trasformano la realtà e ne direzionano le strade: raccontare la questione migratoria come una perpetua ed inquietante emergenza fa scaturire sentimenti di paura, di ostilità e di chiusura nei confronti dall’immigrato, soprattutto tra le fasce più deboli della popolazione. È ciò che Valerio Cataldi, giornalista e presidente dell’Associazione Carta di Roma (1), ribadisce nell’introduzione al sesto rapporto 2018 (2) dal titolo “Notizie di chiusura”. L’Associazione nasce nel 2011 con lo scopo di far attuare il protocollo deontologico per un’informazione corretta sui temi dell’immigrazione attraverso attività di formazione, di ricerca, di approfondimento e di cooperazione tra gli operatori dell’informazione. Il sesto rapporto è infatti dedicato all’analisi del linguaggio utilizzato per raccontare l’immigrazione nelle principali testate giornalistiche su carta, nei telegiornali e nelle pagine Facebook di diversi quotidiani. Ciò che emerge è un’evoluzione nei modi di raccontare il fenomeno migratorio e quindi di percepirlo: da “comprensione” a “tensione” e da “pietà” a “paura”. Tale trasformazione però non trova giustificazione in termini quantitativi se si analizzano le statistiche ufficiali e attendibili riguardanti il fenomeno migratorio in Italia. Per esempio, il portale operativo e costantemente aggiornato dell’UNHCR (3), l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati dimostra che, rispetto al 2017 e, ancor più, rispetto al 2016, c’è stata una diminuzione drastica del numero di arrivi.

Fonte: Operational Portal Refugee Situations Unhcr (4)
Anche le statistiche dell’Eurostat sull’origine dei residenti dimostrano come in Italia la percentuale dei residenti nati in un paese al di fuori dell’Unione Europea è irrisoria rispetto alla popolazione autoctona.

Fonte: Eurostat online (5)
Allo stesso modo, i dati pubblicati dal Ministero dell’Interno mettono in luce un netto calo degli sbarchi nel 2018 ( 23.370) rispetto al 2017 (119.369) e ne prospettano una quasi scomparsa nel 2019 (155):

Fonte: Cruscotto statistico giornaliero, Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione (6)
Se si preferisce invece adottare una prospettiva di lettura economica dell’impatto dell’immigrazione in Italia, basta leggere il Rapporto del Centro Studi di Confindustria, “Immigrati: da emergenza ad opportunità” (7). La popolazione immigrata, secondo lo studio, rappresenta il 9,7% della popolazione italiana, e viene considerata un’opportunità per il paese grazie alla giovane età degli immigrati capace di controbilanciare il calo demografico, e grazie al loro lavoro che, più che sottrarre possibilità agli autoctoni, non solo vale l’8,7% del Pil ma copre mansioni non qualificate, meno remunerate e quindi poco appetibili per i nativi, secondo un principio di complementarietà occupazionale. Analoghi risultati sono fuoriusciti dal XVI Rapporto Annuale dell’Inps (8) che dimostra come la maggior parte dei lavoratori dipendenti immigrati si trovi nella fascia d’età attiva, sotto ai 45 anni, e quindi contribuisca al finanziamento del sistema previdenziale (al 2016 il contributo netto ammonta a 36,5 miliardi di euro) in termini maggiori rispetto al valore delle rendite future che saranno loro riconosciute.
Eppure, come dimostra lo studio dell’Associazione Carta di Roma, il fenomeno migratorio continua ad essere narrato e rappresentato in termini emergenziali ponendo l’attenzione principalmente sul tema “flussi migratori” associato a forti toni allarmistici che non fanno altro che attivare uno “stato patemico” piuttosto che cognitivo e un clima di “ordinario rancore”: invasione, allarme, emergenza, degrado, minaccia, diffusione di malattie, queste le principali formule associate all’immigrazione. Pochi sono invece gli articoli o i servizi che trattano il tema dell’”accoglienza” che dovrebbe essere invece il nucleo di maggiore interesse perché l’emergenza arrivi è terminata, molti hanno già lasciato il nostro paese per recarsi altrove, quindi la sfida odierna è integrare coloro che hanno deciso di rimanere nel nostro paese, tra i quali molti stanno già contribuendo a livello socio-economico. A dimostrazione della diminuzione del fenomeno, le percentuali di visibilità giornaliera sulle prime pagine di cinque quotidiani italiani ( Repubblica, LaStampa, Corriere della Sera, Avvenire, Il Giornale) è calata del 17% rispetto al 2017 e del 38% rispetto al 2015.
Al contrario, nei telegiornali, caratterizzati da servizi brevi che non necessitano l’attenzione della lettura ma che arrivano anche agli occhi e alle orecchie più disattente, la visibilità del fenomeno migratorio è aumentata rispetto al 2017. Le tematiche più affrontate sono quelle legate ai flussi, alla criminalità e alla sicurezza perché l’attenzione attuale si concentra sulla difesa dei confini, sulla chiusura dei porti, sul e su misure più restrittive in materia di asilo. Inoltre, ciò che caratterizza i servizi è la coralità delle immagini e delle riprese, gli immigrati vengono sempre rappresentati come un gruppo omogeneo di esseri umani unito dalla stessa sorte che non ha bisogno di primi piani o di storie personali, di origini e vissuti radicalmente diversi o di prospettive discordanti, perché il loro racconto è presupposto, è dato, non può rischiare l’approfondimento. Il lemma più ricorrente nelle principali testate, tra il 2013 e il 2018 rimane sempre “migrante” seguito da “profugo”, altro termine usato in modo inappropriato perché invece di designare <colui che per diverse ragioni (guerra, povertà, fame, calamità naturali, ecc.) ha lasciato il proprio Paese ma non è nelle condizioni di chiedere la protezione internazionale> (definizione Treccani), ha sempre di più connotato gli immigrati come soggetti passivi da sostenere sottraendo risorse al nostro paese, nascondendone così il carattere attivo e potenzialmente contributivo. Altro aggettivo il cui uso sembrava aver subito un blocco ma che sembra stia tornando in voga è “ clandestino”. Il termine deriva dal latino clandestinus che significa <fatto di nascosto, e si dice per lo più di cose fatte senza l’approvazione o contro il divieto delle autorità> (definizione Treccani). “Clandestino” non è un termine presente nella legislazione attuale, ma dato il suo contenuto, esso potrebbe definire coloro che arrivano nel territorio italiano senza documenti o coloro che permangono senza il rinnovo del permesso. Il termine, invece, da aggettivo si è traslato in sostantivo presupponendo un giudizio negativo alla persona, come se il non possedere i documenti si traduca necessariamente nell’essere un malintenzionato, delinquente e possibile soggetto attentatore all’ordine pubblico.
La struttura stessa del linguaggio utilizzato costruisce quindi pregiudizi e immagini fisse e immutevoli perché essa presuppone una generalizzazione di base che permette alle informazioni di rimanere sul piano della superficialità e delle parzialità. Sono rari gli approfondimenti sui vissuti personali, i racconti umani e le notizie legate agli immigrati rimangono imperniate sulle decisioni politiche, su determinati esponenti di governo e sul dibattito europeo. Non a caso, la parola simbolo 2018 collegata alla questione migratoria è “Salvini” protagonista di 865 titoli, l’8,5% sul totale. Questo aspetto censura l’umanizzazione di ogni singolo, che non viene considerato altro che uno dei tanti, uguale al resto della folla, dalle connotazioni già chiare e presupposte. Se l’individuo si discosta dal marchio, viene considerato un’eccezione: <Immigrato senza documenti scala un palazzo di quattro piani per salvare un bambino>. Il titolo esplicita il presupposto che un immigrato “senza documenti” non è solito compiere una buona azione, anzi, è considerato un potenziale criminale. Non solo, l’azione dell’immigrato non viene letta come azione istintiva di una persona di fronte ad una vita in pericolo, ma viene raffigurata come azione di un immigrato insolito perché ha avuto un comportamento coraggioso e umano. Per questo, non siamo soliti ascoltare notizie sorridenti sugli immigrati ma la loro connotazione è quasi sempre negativa, anche nei casi in cui l’immigrato è una vittima. Per esempio, in materia di lavoro, è raro che si dia voce agli immigrati regolari a livello legislativo e che lavorano contribuendo alla struttura economica del nostro paese.
Nel 2017 la parola simbolo legata alla questione migratoria è stata “ONG”, non in senso positivo bensì associandole ad organizzazioni che fanno business sulla pelle degli immigrati trasformandosi così da “eroi” o “angeli del mare” a “trafficanti” o “taxi per i migranti”. Queste affermazioni hanno cominciato a creare intorno alle organizzazioni un’ aurea di perplessità, sospetto e diffidenza fino ad ostacolarne le azioni vere e proprie. La creazione di questa impalcatura ha dunque svalutato i principi, gli scopi e la legittimità a portare avanti le proprie attività giornaliere ed ha altresì gettato un velo di disprezzo su coloro che li sostengono, che rivendicano una diversa azione politica in materia di immigrazione e che, per questo, sono stati definiti, o meglio, etichettati come <buonisti> in quanto promotori di principi di solidarietà e umanità.
La riuscita di questo clima di tensione, paura, odio e xenofobia è purtroppo documentato dalle analisi che l’Associazione Carta di Roma ha effettuato sul linguaggio nelle pagine Facebook di cinque quotidiani (Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Fatto Quotidiano e Il giornale) in merito alla vicenda del 3 febbraio 2018 quando nel centro di Macerata, una serie di spari diretti a persone immigrate ha causato diversi feriti. L’analisi si concentra sui commenti lasciati dagli utenti Facebook sui post relativi alla notizia. Come afferma lo studio, si tratta di un’analisi più qualitativa che quantitativa ma il quadro che ne fuoriesce è comunque un ottimo spunto per comprendere le tendenze nell’uso del linguaggio e i sentimenti diffusi in Italia in materia di immigrazione. Quattro sono state le modalità di reazione. La prima riversa la colpa alla politica, indipendentemente dall’appartenenza partitica. Un’altra reazione è l’innalzamento dei toni allarmistici e la conferma di una situazione di emergenza, di invasione e di attacco alla pubblica sicurezza e al decoro urbano. L’ultima linea interpretativa fa riferimento a strategie di giustizia privata.
Se i racconti degli immigrati non si fanno più distesi e più inerenti alla realtà, i cittadini non saranno mai pronti ad integrare. Perché integrazione non significa sfruttare i lavoratori a zero diritti, dare loro i beni di prima necessità e inserirli negli iter burocratici e legali di riconoscimento del proprio status; integrare significa anche creare un clima di integrazione ed i presupposti per poter comunicare in maniera distensiva.