[et_pb_section bb_built=”1″][et_pb_row][et_pb_column type=”4_4″][et_pb_text _builder_version=”3.0.86″ background_layout=”light” text_orientation=”justified”]
La crescente domanda di Bitcoin presenta delle conseguenze energetiche e ambientali spesso sottovalutate
La corsa del Bitcoin non si arresta e la cripto-valuta arriva a diventare la quinta moneta che vale di più al mondo dopo dollaro Usa, l’Euro, lo Yuan cinese e lo Yen giapponese: il 71% della popolazione mondiale vive in paesi la cui moneta nazionale ha un valore inferiore rispetto al bitcoin (dati Coinmarketcap.com). Il bitcoin ha debuttato nella borsa e nel mercato dei futures di Chicago (il Cme – Chicago Mercantile Exchange): 1 bitcoin vale circa 19.000 dollari, quando nei primi anni 2.000 valeva qualche centesimo.
All’inizio del 2014, l’Autorità Bancaria Europea (EBA) aveva dichiarato in alcune comunicazioni ufficiali che non esiste in tutta l’Unione europea nessuna protezione per chi subisce perdite finanziarie legate alla chiusura o al fallimento di piattaforma che scambia o detiene valute virtuali ovvero non controllate da banche e organismi centrali. Dopo aver studiato il caso per anni, l’Eba ha rilasciato una serie di documenti e proposte di legge che probabilmente si concretizzeranno nell’estensione delle direttive antiriciclaggio europee alle piattaforme di scambio di valute virtuali che consentono transazioni anonime, in modo da incentivare la trasparenza e prevenire il finanziamento al terrorismo e il riciclaggio di denaro.
Ora l’Eba ha inserito tra le priorità della propria agenda di studi l’open banking e le cripto-valute, nello specifico la direttiva europea Psd2 e la tecnologia della blockchain, per capire come questi ultimi possano essere inseriti nel contesto bancario per incrementare l’offerta data-driven diretta ai clienti. I bitcoin stanno acquistando sempre più legittimità nonostante la loro estrema volatilità.
Fino a qui tutto bene, se non fosse che il cosiddetto mining, ovvero le operazioni di crittografia per la sicurezza e le operazioni di transizione finanziaria, ogni anno costa più circa 30 terawattora (TWh), quasi quanto l’Irlanda (dati Bitcoin Energy Consumption Index, Digieconomist). Ogni singola transazione (della durata tra i 10 minuti e le 17 ore) richiede circa 240 kWh, immettendo nell’atmosfera ben 120 kg di anidride carbonica: poiché ogni giorno vengono completate circa 350.000 transazioni, il fabbisogno energetico dell’intera Serbia e quasi lo stesso della Danimarca (circa 7 milioni di abitanti).
L’intero sistema di produzione di bitcoin consuma lo 0,13% della domanda totale di elettricità nel mondo (dato comparabile a singole 159 nazioni: i miner di bitcoin se fossero riconducibili al consumo di energia elettrica di un sistema paese nazionale sarebbero al 61° posto nella classifica mondiale, quello oggi occupato dal Marocco (Power Compare). Molto spesso queste server farm vengono dislocate in zone del mondo in cui la manodopera e l’energia costa meno, ad esempio Cina e Mongolia (province del Sichuan e lo Shenzhen), laddove la produzione di energia dipende in buona parte da fonti non rinnovabili fortemente inquinanti sottoposte a scarsi controlli.
La sua continua crescita determina un’impennata nella domanda e dunque nella produzione di energia: entro la fine del 2018 i consumi energetici raddoppieranno. I bitcoin, però, non sono infiniti, bensì dipendono dall’algoritmo sottostante (sulla base della legge di Moore), il quale determina un rendimento crescente fino ad una determinata soglia poi decrescente. Anche se all’inizio del 2020 la remunerazione per l’estrazione di bitcoin si dimezzerà, il processo sarà redditizio fino a che il prezzo sarà uguale o superiore al suo costo marginale (circa 6.600 dollari Usa in rete). Secondo stime attuali prevedono che il 99% di essi sarà minato entro il 2027: l’ultima moneta bitcoin è prevista per il 2130. Tutto ciò che rimarrà sarà il loro impatto sul nostro pianeta, una “Carbon Footprint“ tutt’altro che sostenibile.
[/et_pb_text][/et_pb_column][/et_pb_row][/et_pb_section]