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Inquinamento atmosferico e mortalità da coronavirus

Particolato e COVID19

L’aria è quella miscela gassosa omogenea, composta da azoto, ossigeno, argon, anidride carbonica e altri elementi, indispensabile a tutti gli organismi aerobi. La qualità dell’aria è tuttavia sempre più minacciata dalle sostanze inquinamenti di origine prevalentemente antropica. A livello globale nove persone su dieci respirano aria inquinata, la quale determina annualmente circa 8 milioni di morti premature, di cui 2,4 milioni per malattie cardiache, 1,8 per malattie polmonari e cancro e 1,4 per ictus, ed è responsabile di un calo delle aspettative di vita pari a 2-24 mesi nei Paesi europei ad alto reddito. Tale fenomeno interessa l’uomo tanto a livello esterno quanto a livello domestico: 4,2 milioni sono i decessi annui per inquinamento outdoor, mentre 3,8 milioni per quello indoor, il quale risulta essere molto più diffuso nei Paesi a più bassi livelli di sviluppo, dove le popolazioni, in assenza di altre fonti energetiche, ricorrono all’utilizzo di biomasse mediante focolari e stufe scarsamente efficienti. Gli effetti sulla salute umana dell’inquinamento atmosferico, acuti e cronici, sono imputabili principalmente al particolato (PM10 e PM2,5), all’ozono e al biossido di azoto, per i quali sono state fissate dall’OMS delle soglie di limite, sebbene la stessa Organizzazione sottolinei che effetti sanitari possono presentarsi anche a concentrazioni inferiori a quelle di riferimento.

Il particolato atmosferico è un inquinante in forma solida, liquida o gassosa estremamente voltatile, diffuso e dalla composizione chimica variabile, che causa circa 7 milioni di morti premature ogni anno. Generalmente è composto da carbonio, solfato e nitrato, ma può contenere alcune sostanze tossiche per via delle sue proprietà adsorbenti. L’adsorbimento, ovvero la capacità di molti materiali solidi di trattenere sulla propria superficie molecole allo stato fluido con le quali sono entrati in contatto, determina una maggiore diffusione delle sostanze dannose per l’uomo e per l’ambiente. Queste vengono di fatto trasportate nell’aria da un vettore, come il particolato, incrementandone enormemente la diffusione e possibilità di raggiungere l’uomo. Ad esempio si considerino gli inquinanti organici persistenti (POPs), un insieme di sostanze chimiche che formano composti idrofobici, lipofili, mobili e soggetti a bioaccumulazione e magnificazione biologica, capaci di indurre disfunzioni del sistema immunitario, disturbi neurologici, comportamentali e della sfera riproduttiva, risultando in alcuni casi mutagenici e cancerogeni. Nonostante siano stati messi al bando negli anni Settanta, i POPs minacciano ancora oggi la salute dell’uomo e dell’ambiente per via delle elevate concentrazioni depositatesi nel corso degli anni (particolarmente significativi sono stati i flussi di diossine e furani). Purtroppo i cicli di adsorbimento e deposizione atmosferica riguardano numerose altre sostanze potenzialmente tossiche, tra cui i metalli pesanti (in particolare cadmio, piombo e mercurio, derivanti principalmente da miniere, fonderie, raffinerie e dall’incenerimento dei rifiuti). Una ricerca del 2017, condotta da università ed enti di ricerca australiani e cinesi, ha dimostrano che il PM2,5 può fungere da vettore anche per microrganismi come i virus dell’influenza. Inoltre, l’esposizione in forma acuta o cronica a tale sostanza determina una serie di rischi per la salute come danni al sistema respiratorio, cardiopolmonare e cerebrovascolare. Esso risulta poi cancerogeno per gli adulti e causa di malattie croniche quali otiti e asma nei bambini; le derivanti infiammazioni polmonari, nel caso di esposizioni di lungo periodo, indeboliscono il sistema immunitario, favorendo l’ingresso nell’organismo di virus e batteri, per cui diviene più difficile sconfiggere quelle malattie che attaccano il sistema respiratorio, come l’influenza e la polmonite. All’aumento degli effetti sulla salute umana seguono ingenti costi per i servizi sanitari nazionali, con inevitabili ripercussioni sull’economie; si consideri che in Cina la combinazione di ozono e particolato causa ogni anno oltre 1 milione di morti premature con un costo di circa 38 miliardi di dollari.

Particolarmente pericoloso è il PM2,5 che, essendo di dimensioni inferiori ai 2,5 micrometri, riesce facilmente a penetrare nei tessuti polmonari. Questo tipo di particolato è estremamente diffuso: si stima che l’87% della popolazione mondiale viva in aree in cui tali concentrazioni superino le soglie limite fissate dall’OMS. Le emissioni dirette di questa forma di particolato sono riconducibili ai processi di combustione e agli impianti energetici, ma può formarsi anche per via indiretta, quando gas come l’ammonio, contenuto nei fertilizzanti, reagiscono con altri inquinanti in atmosfera. A tal proposito è utile evidenziare l’impatto ambientale connesso alla produzione di energia e alle pratiche agricole. L’energia primaria è ottenuta da combustibili fossili per oltre l’85% (34,2% petrolio, 27,6% carbone e 23,3% gas naturale), i quali determinano il 65% dei gas climalteranti, cui si aggiungono importanti emissioni di metalli pesanti, particolato, biossido di zolfo, ossidi di azoto e composti organici volatili. L’agricoltura e la zootecnia, a causa del ciclo naturale dell’azoto, dei fertilizzanti minerali e delle escrezioni animali (rispettivamente responsabili del 22% e del 75% delle emissioni di ammoniaca in Europa), producono il 94% delle emissioni europee di ammoniaca, cioè quella sostanza che genera lo ione ammonio e determina l’acidificazione e l’eutrofizzazione delle acque (il restante 6% deriva dalla gestione dei rifiuti, dal trasporto e dalle industrie).

In questo periodo estremamente delicato in cui il virus influenzale Covid-19 si sta diffondendo globalmente, si è assistito a importati riduzioni dei livelli in inquinamento dovute all’adozione di misure di isolamento. Il programma spaziale europeo Copernicus mostra infatti concentrazioni di biossido di azoto, PM10 e PM2,5 decisamente inferiori rispetto alla media (30% di PM2,5 in Cina e fino a quasi il 50% nelle capitali europee). Tali riduzioni, se opportunamente controllate e incrementate, possono avere un ruolo fondamentale nella lotta contro la pandemia. A conferma di ciò, un recente studio condotto dal team di ricerca guidato dall’italiana Francesca Domenici, docente di biostatistica all’Harvard University T.H. Chan School of Public Health. I ricercatori hanno analizzato 3.080 province statunitensi (98% della popolazione), mostrando un nesso causale tra l’esposizione di lungo periodo a contaminanti atmosferici e il tasso di mortalità da coronavirus. È stato dimostrato che l’aumento dell’esposizione al particolato (PM2,5), per quanto minimo, determina la manifestazione di effetti più gravi dovuti ad un’infezione da Covid-19; in particolare ad ogni aumento di un milligrammo per metrocubo di PM2,5 è associato un tasso di mortalità superiore del 15%. Stando a quanto riportato, il distretto newyorkese di Manhattan conterebbe oggi circa 250 morti in meno, se negli ultimi 20 anni avesse ridotto il livello medio di inquinanti particellari di una sola unità. Finora a livello mondiale sono stati confermati oltre 2 milioni di contagi e 146 mila decessi, di cui più di 1 milione di casi e 93 mila morti in Europa, con andamenti crescenti in Africa e America centrale e meridionale. La ricerca, sebbene dovrà essere approfondita ed estesa, ha prodotto risultati di grande rilievo in quanto permette l’individuazione di quelle aree che sono o potrebbero essere più vulnerabili al Coronavirus, offrendo la possibilità ai governi di tutto il mondo di concentrare le risorse e gli sforzi lì dove più necessario.

Similmente, il dottor Zuo-Feng Zhang, direttore associato per la ricerca presso la University of California, Los Angeles, Fielding School of Public Health, scoprì nel 2003 che i pazienti affetti dalla SARS-CoV e residenti nelle aree più inquinate della Cina avevano il doppio delle possibilità di morire per il virus rispetto a quelli che vivevano in zone con concentrazioni inferiori di inquinanti atmosferici.

È dunque chiara la necessità di aumentare gli sforzi nella lotta all’inquinamento atmosferico durante e dopo la pandemia, rinforzando la legislazione vigente ed impedendone ogni regressione.

 

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