Luglio 1994.Un milione di morti e due milioni di profughi. E il Brasile che vince la Coppa del Mondo.
La notte tra il 6 e il 7 aprile 1994 ha segnato orribilmente la storia del Rwanda e vergognosamente quella della comunità internazionale, che, impassibile, ha lasciato che si consumasse uno dei più brutali genocidi del XX secolo. Il never again, dichiarato con forza da parte delle Nazioni Unite dopo le constatazioni di ciò che era stato commesso contro ebrei, disabili, omosessuali, rom e slavi nei campi di concentramento e di lavoro durante la Seconda Guerra Mondiale, è rimasto un sibilo sottile, urlato senza voce e senza diritti sul futuro. Nella notte del 6 aprile 1994 il Presidente della Repubblica del Rwanda, Juvénal Habyarimana, viene assassinato insieme a Cyprien Ntaryamira, Presidente del Burundi, mentre si trovavano a bordo dell’aereo presidenziale, abbattuto da un missile vicino all’aeroporto di Kigali. Seguirono centoquattro lunghissimi giorni in cui centinaia di migliaia di persone furono massacrate, con una stima di 5 ogni 60 secondi, sulla base di un programma prestabilito, ideato da gruppi paramilitari Hutu per sterminare i Tutsi rwandesi. Sei anni dopo, il mattino del 26 giugno 2000, il Generale Romeo Dallaire, che durante il genocidio era a capo della missione di pace UNAMIR in Rwanda, fu trovato ubriaco e in stato di semincoscienza nel parco di una cittadina del Quebec. Successivamente, alla domanda di un giornalista, che gli chiedeva se, poiché molte persone non lo ritenevano responsabile di quella tragedia, questo pensiero non gli portasse un po’ di pace e di conforto, Dallaire rispose:” Se in me c’è una parvenza di serenità, penso sia grazie alle nove pillole al giorno che prendo…Non puoi allontanarti da tutto quel sangue, da tutte quelle ferite sanguinanti, da tutti quei lamenti.” La storia parla chiaro e ciò che emerge è che quasi un milioni di tutsi e hutu moderati, di cui circa un terzo bambini, furono assassinati dai machete degli Interahamwe, squadroni della morte e braccio armato dell’Hutu Power.
Ma il genocidio del ’94 non era imprevedibile: risulta semplicemente essere il meccanismo complesso di un processo iniziato nel 1959 e caratterizzato, come tutti i genocidi, dalla razionalità esemplare dello sterminio. I Governi Occidentali, segnati dalla sconfitta ricevuta quasi due anni prima a Mogadishu, in Somalia, in cui 18 soldati delle forze speciali statunitensi, per catturare alcuni “signori della guerra” e creare una zona di sicurezza per la distribuzione di aiuti umanitari alla popolazione, furono catturati e uccisi, si trincerarono dietro a frasi in cui si parlava dei massacri in Rwanda come di “risentimenti tribali” e “usuali pratiche” tra africani e, pertanto, non necessari di alcun intervento esterno. Ma la realtà è che, primi tra tutti, la Francia e gli Stati Uniti avrebbero potuto prevenire o, almeno, fermare in corsa il genocidio, non impedendo alla comunità internazionale di intervenire. Ciò che è avvenuto nel ’94 ha radici profonde, che scavano la terra fino a giungere al tempo dei suoi colonizzatori e della sua cristianizzazione. Nell’arco di quasi quattro decenni l’occupazione tedesca prima e quella belga poi hanno portato all’esasperazione i rapporti tra hutu, giunti primariamente dal Camerun, portando con sé la pratica dell’agricoltura e dell’allevamento, e tutsi, pastori-guerrieri nomadi arrivati dagli altipiani del nord probabilmente tra XIII e il XIV secolo. Sebbene numericamente inferiori, dai tempi del colonialismo i tutsi costituirono un’élite più ricca, rispetto alla grande massa di contadini formata dagli hutu, che però, nel tempo, furono supportati dagli ex colonizzatori, dalla Francia, che stipulò accordi in cui, senza interferire nelle questioni politico-militari del Rwanda, s’impegnò a fornire addestramento e assistenza tecnica alle forze nazionali rwandesi e al suo leader, il Generale Habyarimana, salito al potere nel 1973 con un colpo di stato. Infine la Chiesa, il Vaticano, che sempre ha esercitato un enorme potere sia economico che nella diffusione delle idee.
La situazione precipita rapidamente, i massacri si succedono, molti sono costretti all’esilio in Burundi o negli Stati vicini. Fino al punto di non ritorno, fino alla notte tra il 6 e il 7 aprile 1994.
Oggi il Rwanda è uno Stato che non dimentica, che ricorda i propri morti con dolore, mentre si continuano a scoprire nuove fosse comuni. Ogni anno, nella settimana dal 7 al 13 aprile, lo Stato rwandese organizza in tutto il Paese conferenze, incontri e marce della pace, come quella che quest’anno ha portato i cittadini di Kigali a camminare uno accanto all’altro dal Parlamento allo stadio, per non dimenticare, per commemorare. Ma questa è solo la prima settimana del lungo periodo che si chiude il 14 luglio, in cui l’organizzazione non governativa Ibuka, in kyniarwanda letteralmente “fai memoria”, continua a promuovere iniziative ad ampio spettro sul genocidio, perché il Rwanda non dimentica, ma non rimane neanche ancorato al passato, lasciando che questo lo travolga. Oggi il Rwanda è un Paese giovane, che, grazie al sacrificio di moltissimi del Fronte Patriottico prima e alle scelte politiche poi, con il suo presidente Paul Kagame, investe nell’istruzione, nella cultura, nell’onestà e nelle donne.